L’Esperienza dell’Eritrea del Presidente della nostra Associazione

Riportiamo il racconto  del Presidente dell’Associazione a fronte di uno dei tanti viaggi fatti ad Asmara. Il racconto che riportiamo è risalente al 2010: 

<<L’Africa è un continente a misura d’uomo. Per chi, come me, è nato a cavallo tra le due guerre mondiali del secolo scorso, l’Africa vive un tempo riconoscibile, passato nella memoria; il tempo della mia infanzia, del mio essere bambino. Se mi guardo bambino, mi ricordo andare in bicicletta, correre per le strade, giocare nei cortili delle case, passare molto tempo all’aria aperta, giocare spensierato con tutti i bambini del paese senza distinzioni: ricchi e poveri. Eravamo felici con poco, sapevamo di non avere molto, ma ci bastava, per noi era necessario stare insieme. Non sapevamo cosa fosse la tecnologia. La televisione in ogni casa. I cellulari, le Wii, l’ADSL erano di là da venire. I nostri eroi erano Bartali e Coppi nelle imprese ascoltate insieme ai grandi tramite uno dei pochi apparecchi radio che c’erano in paese.

Quando atterro ad Asmara mi sembra di mettere un piede nel passato, non che non ci sia chi abbia il satellite, internet, il fax, non che il funzionamento di tali cose non siano conosciuti ai più, ma c’è un qualcosa che mi ricorda ciò che eravamo noi italiani una cinquantina d’anni fa.

Non tutte le strade sono asfaltate, non tutti hanno l’auto, molti camminano a piedi, macinando chilometri e chilometri al giorno. La vita quotidiana per questo motivo è rallentata: prendere appuntamento con persone che non hanno e non usano mezzi significa dover aspettare che a quell’appuntamento ci arrivino a piedi. In Italia ti arrabbieresti, penseresti che avresti potuto sfruttare quel tempo di attesa in un altro modo, facendo altre cose. Il tempo in Eritrea non si sfrutta, si vive. Noi abbiamo perso l’abitudine a vivere il tempo. Nel mio ultimo viaggio ad Asmara, come sempre, alcuni conoscenti mi hanno invitato a prendere un caffè, ora sono abituato ed il rito del caffè eritreo non suscita in me più nessuna meraviglia, ma la prima volta la ricordo ancora con stupore. Il rito del caffè dura dalla due alle tre ore: chi ti ospita macina del caffè che fa cuocere sulle carbonelle in un recipiente oblungo in cui versa anche dell’acqua; appena entri getta sul tuo cammino delle rose in segno di ospitalità; ti versa e si versa il caffè, mentre lo si beve si parla del più e del meno; finita di bere la prima tazza tu pensi che l’ospitalità sia finita, ma vedi che l’ospitante inizia ad offrirti dei popcorn continuando a parlare del più e del meno, dopo una mezz’ora ’ ti offre la seconda tazza di caffè, dopo un’ora te ne offre una terza. Il caffè in Eritrea si prende tre volte. Se non dovessi accettarlo la prenderebbero come un’offesa, per loro il parlare, lo stare insieme è il segno del rispetto dell’altro, è il fondamento del vivere comune. Torno in Italia e penso a cosa significhi per gli italiani prendere il caffè: darsi un appuntamento al bar, salutarsi e via. Torno in Italia e penso che essere felici significhi stare insieme agli altri, ascoltarli, dando loro il tempo necessario, un qualcosa che forse, purtroppo, stiamo un po’ perdendo…>>

Don Francesco

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