Cosa si aspetta un occidentale dalla pace fra Etiopia ed Eritrea

I venti di pace che spirano sulla zona sub-sahariana dell’Africa, non possono che farci felci.

La ripresa dei rapporti diplomatici fra Etiopia ed Eritrea dopo circa venti anni è una notizia storica e come tale va vissuta da chi, come noi, da oltre trent’anni aiuta una missione cattolica eritrea e da chi, come noi, ha visto crescere più di una generazione di ragazzi che non ha conosciuto altro che la guerra, che ha vissuto tutta la vita con una spada di Damocle sulla propria testa: partire per il servizio militare, partire per la guerra.

Per noi, dediti a costruire percorsi di pace, veder partire ragazzi senza la certezza di un loro ritorno è stato sempre frutto di sofferenze indicibili. A centinaia di chilometri di distanza percepivamo le loro paure, il loro desiderio di fuggire, la loro voglia di avere la possibilità di vivere in un mondo migliore, un mondo di pace. Poco o niente potevamo fare per aiutarli a costruire i loro sogni.
Se tutto andrà a buon fine, la guerra fra poco finirà. Cosa aspettarsi dalla pace?

Come contadini che dopo un periodo di arsura guardano all’orizzonte nuvole piene d’acqua immaginando un rigoglioso raccolto, così noi da un’eventuale pace fra Etiopia ed Eritrea immaginiamo molte cose, fra queste principalmente due: la fine del servizio militare obbligatorio per tutti dai 17 ai 52 anni, l’apertura di un libero mercato, di un libero scambio di merci.

Entrambe queste cose permetterebbero ai giovani eritrei di poter sognare di vivere nella propria terra, di poter costruire lì, mattone su mattone, la propria vita. Permetterebbe a noi, dopo più di venti anni, di aiutarli in modo più costruttivo e meno assistenzialistico, di formarli per avviare piccole attività artigianali, come in passato quando abbiamo aiutato persone ad aprire un bar, una pizzeria, come quando abbiamo realizzato corsi di taglio e cucito per donne tolte dalla strada, tutte cose che, ormai, n0n potevamo più fare.


