Occhio non vede, cuore non duole….
(Irpinia e migranti: 3° parte)
di Paola Gerola

Sara, è una mediatrice culturale ed opera da anni in uno degli Sprar di Venezia, abbiamo voluto riportare la sua esperienza perchè racconta di un modello di gestione dell’accoglienza possibile e molto diverso dagli standard che l’immaginario collettivo delle nostre comunità ha stratificato ma, sopratutto perché offre un modello politico concreto di gestione di una “non emergenza”.
- Che cos’è lo S.P.R.A.R. – Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati” e chi sono gli attori coinvolti?
Lo SPRAR è un sistema che esiste dal 2001 da quando il Ministero dell’Interno Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, l’Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI) e l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (UNHCR) siglarono un protocollo d’intesa per la realizzazione di un “Programma nazionale asilo”. Nasceva, così, il primo sistema pubblico per l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, diffuso su tutto il territorio italiano, con il coinvolgimento delle istituzioni centrali e locali dove i Comuni erano in prima fila con il coinvolgimento di tutte le figure della cooperazione sociale di un determinato territorio. Il sistema SPRAR ha funzionato e funziona ma negli ultimi anni l’immigrazione verso il nostro paese è aumentata per motivi legati a guerre e crisi economica e quindi sono nate operazioni come “Emergenza Nord-Africa” e dopo “Mare Nostrum” che nascono con gli stessi intenti dello SPRAR ma che viene gestita non più dai Comuni ma dalle Prefetture. Bisogna aggiungere che l’aumento dei migranti è stata un movimento lento e si percepiva già negli ultimi 6 anni ma la politica ha preferito chiudere gli occhi e gestire l’emergenza profughi in altro modo. Inoltre non tutti i migranti sono rifugiati, molti scappano da guerre oppure alla ricerca di una vita migliore. L’Italia politica ha sempre una memoria corta, ricordiamoci la guerra in Kosovo come è stata diversamente gestita dal nostro paese ma anche dall’Europa stessa e chiediamoci perché per la Siria non è avvenuto lo stesso.
- Come funziona il riconoscimento di rifugiato in Italia. E’ vero che in Italia ci vogliono più di due anni, mentre negli altri paesi Europei i tempi variano da 6 mesi a 1 anno?
Il migrante appena arriva in Italia chiede lo status di rifugiato e nell’attesa di essere ascoltato davanti ad una commissione è ospite di uno centro di accoglienza. I tempi variano da sei mesi ad un anno ma con l’aumento dei migranti i tempi si sono allungati. Qui, in Veneto, hanno istituito ulteriori commissioni per snellire i tempi. Il migrante racconterà la sua storia davanti ad una commissione la quale valuterà se esistono i requisiti per lo status di rifugiato oppure qualche altro tipo di permesso di soggiorno. Sono delle vere e proprie interrogazioni dove l’aspirante rifugiato deve preoccuparsi di procurare tutta la documentazione possibile per certificare la veridicità del suo racconto. Se ottiene un permesso di soggiorno il migrante esce automaticamente dallo SPRAR ma se ottiene un diniego, cosa molto probabile, può fare ricorso e quindi sarà affiancato da un avvocato e quindi riascoltato dalla commissione e i tempi si allungano. I due anni, quindi, avvengono solo se c’è un diniego e finché l’iter non finisce il richiedente è sempre ospite di una struttura Sprar.
- Lo SPRAR è veramente lo strumento più efficace per l’accoglienza?
Sicuramente si, per una serie di motivi fondamentali. E’ uno strumento che esiste da quasi venti anni e poi è il Comune che guida il progetto. Il motivo fondamentale è che i progetti SPRAR vengano applicati in centri piccoli (20 massimo 50 accolti) perché la gestione sia efficiente, non è possibile riuscire a controllare 100-150 (addirittura 1000) persone, è normale che poi succedono incidenti e problemi. E’ auspicabile che ogni operatore si occupi di 5-6 migranti al massimo perché è necessario accompagnarli in un processo d’integrazione.
- Cosa fate di preciso?
Lo SPRAR prende in carico il migrante in tutte le sue attività. Il servizio sanitario quindi controlli medici e vaccinazioni sempre insieme all’azienda sanitaria locale e poi la scelta del medico di base. I corsi d’italiano è la priorità e poi il lavoro. Si ascolta il migrante per conoscere la sua storia ma anche le sue attitudini lavorative e qui si prevedono corsi di formazione lavoro. E poi il sostegno psicologico, ricordiamoci che queste persone affrontano viaggi pieni di pericoli. La nostra cooperativa è in continuo contatto collaborativo con istituto alberghieri per corsi di addetto ai piani, cameriere di sala, cuoco. L’ospite dopo il corso può fare uno stage presso qualche struttura. Così anche per i corsi di cucito, una ragazza nigeriana che abbiamo accolto oggi lavora nella migliore sartoria di costumi di Venezia. E poi ci sono le famiglie e quindi bambini da iscrivere a scuola e non nascondo le difficoltà di mediazione con i professori. E’ un lavoro faticoso il nostro, è un continuo mediare ma è avere la possibilità di viaggiare senza partire, conoscere il mondo attraverso le persone è veramente una bellissima esperienza. Sono tutte persone che si mettono in gioco, volenterose e soprattutto desiderose di “fare qualcosa”, infatti è fondamentale tenerle occupate perché la maggior parte di loro, soprattutto chi è stato prigioniero in Libia, hanno delle storie terribili alle spalle, e più sono occupati meno tempo hanno per pensarci, pensare distrugge l’anima, non ti nascondo che alcuni dei nostri assistiti sono stati seguiti dai servizi di igiene mentale sempre con ottimi risultati. L’ospite ha bisogno di essere accolto e insieme a lui iniziare un percorso che lo porta ad integrarsi in una nuova cultura.
- Quindi con questi progetti cambia la forma di “assistenzialismo”?
La parola “assistenzialismo” dovrebbe essere abolita dal vocabolario della cooperazione sociale. La parola assistenzialismo va a braccetto con dipendenza e qui dobbiamo rendere le persone capaci di camminare con le loro gambe ed essere visti come delle risorse economiche. L’obiettivo è quello di renderli autonomi, anche nelle piccole cose quotidiane. E’ vero, c’è sempre il pocket money settimanale, che generalmente loro inviano a casa, ma noi diamo loro anche i soldi previsti per il vitto: loro fanno la spesa e cucinano, inoltre con il cibo si possono creare momenti di integrazione piacevoli sia tra di loro di diverse nazionalità sia con noi italiani, per esempio i nostri volontari hanno insegnato loro a fare la pizza e si è creata la “giornata pizza” alla quale nessuno mancava! Qualunque attività volta all’integrazione è sempre ben accetta da tutti. Ed è qui che deve avvenire il cambiamento. L’immigrato è una risorsa per i nostri territori e loro potrebbero “servire” a noi per non rimanere ripiegati su noi stessi. Come operatore Sprar non ho mai incontrato nessun radicale dell’Islam anzi ho incontrato donne e uomini curiosi di conoscere e alcune volte ci prendevamo anche in giro sulle nostre rispettive religioni.
- Ma tutte queste spese: corsi, vitto, alloggio, sanità…chi le sostiene?
C’è un vero e proprio manuale di rendicontazione SPRAR con i capitoli di spesa relativi al progetto. Registro generale delle spese, prospetto analitico finale delle spese sostenute suddivise per codice; registro delle presenze dei beneficiari; dettaglio riepilogativo dei costi del personale subordinato o parasubordinato, sono solo alcuni dei documenti richiesti. L’ente capofila, solitamente il comune, deve monitorare e rendicontare al Ministero dell’interno secondo i criteri indicati nel manuale. Il Ministero a sua volta utilizza il Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo, gestito anche con fondi Europei e fondi dell’UNHCR. Non si scappa e non è possibile “nascondere”, per questo molti ancora preferiscono il sistema “emergenza”.
- Quindi la soluzione è piccoli numeri e personale preparato?
Sicuramente sì. Il settore immigrazione potrebbe dare lavoro a noi italiani e vorrei concludere dicendo che l’immigrato ci pone davanti ogni giorno un quesito “Sono io un buon cittadino?”. Insomma è l’ora di smetterla di dare la colpa dei nostri problemi all’immigrato perché il desiderio dell’immigrato è di dare meno fastidio possibile. Esiste un’ignoranza dilagante e quindi ben venga l’integrazione perché conoscere allarga i confini della nostra mente. Serve un cambiamento ma cambiare per noi italiani non è facile anche se di questa parola ci riempiamo solo la bocca e le mani e la mente rimangono nelle tasche a contare i soldi oppure per postare l’ultima bufala sui social network. Il problema non è l’immigrato ma l’italiano mi verrebbe da dire.










