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Una giornata in Italia con Suor Pina

Il racconto è essenziale per far conoscere lo spirito di una missione, il perché nasce, cosa realizza. Noi, da anni coinvolti nel collaborare con l’Associazione Mariam Fraternità- ONLUS, siamo persone che sentono sia proprio dovere l’essere solidale verso l’altro, verso gli ultimi, pur non di meno quando Suor Pina è in Italia ci rendiamo conto del perché niente sarebbe esistito se non ci fosse stata lei. L’ultima volta che Suor Pina Tulino è venuta in Italia, da aprile a luglio del 2015, per far curare un ragazzo eritreo  (in questo caso Samy che l’anno scorso venne per curarsi un problema grave alle orecchie, quest’anno è venuto per cercare di risolvere un problema che ha agli occhi. Samy è un ragazzo sieropositivo che vive in una delle case-famiglia che la Congregazione delle Suore del Buon Samaritano gestisce ad Asmara ndr) ne abbiamo avuto un tangibile esempio.

Per Suor Pina essere in Italia significa tante cose, ritrovare i luoghi della propria infanzia, certo, ma, soprattutto, preoccuparsi di coloro che, dopo tanti anni, considera suoi connazionali, gli eritrei. Nel periodo in cui era in Italia, ancora adesso in realtà, erano moltissimi coloro che fuggivano dal Paese, le cronache dei nostri giornali ne parlavano quotidianamente, molte famiglie in Eritrea cercavano notizie di figli, di parenti, con i quali non riuscivano ad avere contatti, volevano essere rassicurati, volevano saperli vivi. Proprio nel tentativo di cercare notizie di un ragazzo eritreo sbarcato in quei giorni a Lampedusa,  abbiamo vissuto, come Associazione Mariam Fraternità– ONLUS, una giornata a dir poco particolare. Siamo stati nei pressi di una stazione di una grande città italiana, come può essere quella di Palermo, Roma, Napoli, Milano, Torino, Genova (per ovvie ragioni non diciamo la città),  alla ricerca di un ragazzo mai trovato e del quale, ancora oggi, dopo mesi, non sappiamo nulla. Nel cercarlo, abbiamo contattato ragazzi dei quali abbiamo conosciuto la storia, constatate le sofferenze,  percepiti i sogni. Sogni piccoli che sembrano impossibili: rivedere un parente, trovare un lavoro qualsiasi, mandare soldi alla famiglia di origine.  Strano destino il  loro, fuggono per migliorarsi e finiscono quasi sempre, per diventare cellule anonime di un’unica tragedia collettiva. Quando partono hanno un’identità, sanno chi sono, hanno un’origine, una famiglia, una volta partiti diventano tutti uguali, condividono lo stesso problema: arrivare a destinazione. Quale? Ne hanno una vaga idea, il loro Eden è spesso identificato con la Germania, a volte con la Norvegia, con la Danimarca, con la Svezia, poche volte, quasi mai con l’Italia. Per molti di loro conta rimanere anonimi, non essere identificati, ma senza avere documenti non puoi comprare una tessera telefonica, non puoi farti trasferire soldi da un tuo parente all’estero disposto ad aiutarti. Senza documenti, spesso, non puoi trovare un riparo per la notte e allora dormi a terra, su uno scatolo, dentro uno scatolo. Eppure c’è chi ti aspetta, chi è disposto a pagarti il viaggio per rivederti, per averti vicino. Pur non conscendoli, pur non trovando la persona che stavamo cercando, quel giorno Suor Pina, non curante nemmeno dei propri problemi di salute, ha dedicato a loro tutta la giornata, ha preso i loro contatti, per lei sono diventati altre persone da aiutare. Noi, come Associazione Mariam Fraternità- ONLUS abbiamo fatto il possibile per aiutarli, ma il possibile è nulla, abbiamo le mani legate, il rispetto delle leggi non ci fa superare il limite da esse imposto.  Abbiamo fatto in modo che mangiassero, che bevessero, abbiamo messo a disposizione per poche ore un nostro cellulare per far chiamare loro i parenti. Più di questo non potevamo fare, più di questo non abbiamo fatto, ma l’amarezza di non poter far nulla di più resta. Cosa ne sarà di questi ragazzi? Riusciranno a realizzare i loro sogni minimi? Ci salutano con ottimismo, ringraziandoci, nei loro occhi si legge l’ottimismo di chi spera, di chi crede che il peggio sia passato. Noi siamo consapevoli che spesso non è così, che spesso si ritroveranno soli, attorniati da una ricchezza ed un’opulenza che non sarà mai la loro. Per molti di loro passeranno anni e anni per aver la possibilità di poter accampare dei diritti, per aver un documento, per poter viaggiare liberamente. È giusto? Non lo è. Di questa esperienza, però, a noi preme sottolineare, descrivere più che altro, come lo spirito del Buon Samaritano è vivo in colei che ha fondato la Congregazione e come il carisma sia quello di aiutare chiunque, incontrato per strada, ha bisogno di aiuto. Un carisma che ha risvolti molto concreti e che deve portarci a riflettere sui nostri limiti: se fossimo stati da soli, senza Suor Pina, se avessimo avuto il compito di cercare una persona e di aiutarla e non l’avessimo trovata, ci saremmo fermati ad aiutare altri fino ad allora sconosciuti? O ce ne saremmo tornati a casa convinti, in ogni caso, di aver fatto il nostro dovere? Non una differenza da poco…

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( Foto. Suor Pina con ragazzi Eritrei)

Educare alla solidarietà- Il dovere della Testimonianza

Gli anni di esperienza associativa accumulata nell’aiutare la Congregazione delle Suore del Buon Samaritano di Suor Pina Tulino ad Asmara ci hanno permesso nel tempo di assumere delle convinzioni che sono diventate le nostre linee guida. La nostra in Italia, questo è un aspetto da sottolineare, è un’esperienza solidale nata dalla pratica, dal dovere affrontare  giorno per giorno i problemi che ci venivano presentati dalla Missione Eritrea. Nel 1984, quando siamo nati all’interno della Parrocchia, eravamo un gruppo di adulti e di ragazzi, molti dei quali studenti, armati solo di fede e di buona volontà, nessuno di noi era un esperto, nessuno aveva la percezione di ciò che sarebbe successo, nessuno sapeva programmare il lavoro di una associazione a lungo termine. Era il tempo in cui Madre Teresa di Calcutta faceva conoscere al mondo i suoi poveri più poveri.  Per noi la solidarietà consisteva solo nell’aiutare gli altri ed il nostro aiutare gli altri era meramente il raccogliere soldi e alimenti e mandarli a Suor Pina. A quest’ultima demandavamo tutto il resto: l’educazione spirituale delle suore, l’educazione dei bambini delle case-famiglia, il rapporto con i genitori dei bambini adottati a distanza. Come Ponzio Pilato di fronte ai problemi della povertà ce ne lavavamo le mani e la nostra acqua era data dal nostro impegno a raccogliere i soldi e gli alimenti, il resto per noi era relegato in una sorta di indifferenza. Ma è davvero questa la solidarietà? Nel susseguirsi degli anni ci siamo resi conto di un nostro approccio sbagliato al problema. Nella nostra buona fede abbiamo sempre preteso che culturalmente per noi il povero non fosse un’identità astratta, non fosse meramente un numero, ma avesse degli occhi, un’anima, una personalità. Facile a dirsi, difficile da concretizzare. Perché se è vero che il povero ha degli occhi, un’anima, una personalità è anche vero che da lui si deve pretendere, per onestà, che restituisca qualcosa in termini di impegno a rendersi indipendente, un impegno a essere anch’egli un volano solidale di un progetto di cui è parte integrante. I soldi non bastano a risolvere i problemi della povertà. Se così fosse ci vorrebbe un pozzo senza fondo e nemmeno basterebbe.  La vera solidarietà deve pretendere l’impegno del povero a cercare di non essere più tale, a non adagiarsi sugli aiuti che riceve, a non dare per scontato che gli aiuti ci siano per sempre. Il povero nel processo di solidarietà deve essere parte attiva nel poter permettere che venga aiutata quanta più gente possibile. È ovvio che stiamo parlando per linee generali, ci sono dei casi in cui ci sono dei limiti oggettivi da parte di chi fruisce della solidarietà che sono insormontabili, soprattutto in caso di malattie, ma non possiamo non essere felici quando vediamo coloro che abbiamo aiutato darsi da fare per aprire, quando ci sono le condizioni,  un’attività  che possa portarli ad essere indipendenti, a non dipendere più da noi, ad essere i primi a testimoniare la nostra opera e a contribuire anche economicamente ad essa.

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(Foto: Ragazze mostrano il proprio lavoro dopo aver frequentato il corso di taglio e cucito- Archivio foto Associazione Mariam Fraternità- ONLUS)

Diario di un viaggio in Eritrea

Quando un occidentale si reca nei paesi più poveri del mondo sia per turismo, sia per volontariato o altro, finisce per diventare un osservatore. Osservatore della povertà altrui, della miseria altrui, della dignità con le quali vengono vissute povertà e miseria. Sono proprio la povertà e la miseria ad ergere muri impenetrabili, barriere, che diventano un limite per la tua comprensione vera della situazione dell’altro, del tuo fratello africano o asiatico che sia. Perché tu l’acqua ce l’hai, tu il cibo ce l’hai, tu la corrente elettrica la usi senza preoccuparti di consumarla, tu il telefono ce l’hai, la posta elettronica la usi più volte al giorno, per te gli sms, gli mms e la libertà di stampa sono un dato acquisito. Quando ritorni, testimoni le condizioni dell’altro, del tuo fratello. Vivi la testimonianza come un dovere, ma la barriera resta; perché tu non sei così povero e quella povertà ti è inconcepibile: non puoi pensare di vivere razionando l’acqua, di collegarti alla rete, allorquando te lo puoi permettere, solo due volte alla settimana. Non puoi pensare di bere acqua piovana. Non puoi pensare di impiegare due ore per fare 35Km pur se hai a disposizione un fuoristrada.

Sono stato ad Asmara per documentare il lavoro delle Suore del Buon Samaritano. Sono andato per capire cosa fosse l’Africa, per vedere con i miei occhi cosa fosse la povertà del Terzo Mondo, per cercare di dare il mio contributo alla costruzione di un mondo migliore, un mondo che pensi anche all’altro, a quello più lontano, con meno opportunità. Ero partito con la ferma convinzione di partecipare alla vita degli altri, di condividerla, ma spesso, troppo spesso, la povertà mi ha reso osservatore: io ero quello con la macchina fotografica, quello con la telecamera, quello con le caramelle, tutti mi sorridevano, tutti mi invitavano ad entrare nelle loro case con gesti di profonda dignità. Ed allora le cose si capovolgevano, chi mi ospitava era a proprio agio e condivideva in pieno con me tutto ciò che era suo, mi abbracciava, mi dava la mano, mi sorrideva, incurante che ai miei occhi la loro vita, la loro mancanza di opportunità di una esistenza diversa, mi procurava angoscia. Per quindici giorni il muro della povertà ha continuato ad ergere una barriera fra i nostri mondi. Sono tornato con la ferma convinzione che stare fermi, non adoperarsi per risolvere uno dei centomila problemi, significherebbe non accettare quegli infiniti gesti di ospitalità avuti, significherebbe non ricambiare con la stessa intensità quella stretta di mano avuta dovunque si andasse. Singolarmente noi occidentali non possiamo fare molto, non possiamo risolvere la povertà di Asmara, dell’Eritrea, ma non possiamo stare fermi. Ho conosciuto il lavoro delle Suore del Buon Samaritano che attraverso le adozioni a distanza dei bambini e degli anziani, attraverso gli asili, attraverso le case- famiglia, attraverso i ragazzi tolti dalla strada, aiutano il popolo eritreo a sopravvivere in attesa di un domani migliore. Nel frattempo  sono sempre più convinto di avere un dovere: la testimonianza.

Francesco

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I nostri asili

Il lavoro delle Suore del Buon Samaritano si divide soprattutto in tre rami principali: Spirituale, assistenziale e di “costruzione” della persona. Il lavoro spirituale è quello che viene fatto formando le novizie con ore dedicate alla preghiere e allo studio biblico; il lavoro assistenziale viene fatto con la gestione del programma di sostegno a distanza dei bambini e degli anziani; il lavoro di costruzione viene fatto principalmente attraverso l’operato con i ragazzi di strada e con gli asili.  Gestire asili vuol dire prendersi la responsabilità di far vivere serenamente la propria infanzia a coloro che, altrimenti, passerebbero il loro tempo in case fatiscenti o in mezzo alla strada. Si fa questo con la speranza di costruire gli uomini del domani, ciò di cui ha veramente bisogno l’Eritrea in particolare, l’Africa in generale.  Le Suore del Buon Samaritano gestiscono 3 asili, uno ad Hemberti, un villaggio a 30 km a sud ovest di Asmara, un altro ad Hazien, 30 km a nord ovest di Asmara, ed un terzo nel carcere femminile della capitale. Ad Hemberti l’asilo è frequentato da 420 bambini (da pochi anni sono state aggiunte due aule), ad Hazien da 110, quello del carcere ha un numero di bambini variabile per ovvi motivi. I bambini frequentano l’asilo dai 4 ai 5 anni. Il primo dei due anni giocano, il secondo ed ultimo anno, prima di iniziare le scuole elementari, studiano, con il metodo Montessori, il tigrino e l’inglese. Le giornate dell’asilo sono dettate da tempi quotidiani, si entra alle 8 si esce alle 14, alle 12 tutti fanno merenda con un panino.  Le suore e le insegnanti si impongono di non essere severe con i bambini, ma di regalare loro giornate felici e serene, sapendo che per tutti loro la vita sarà difficile, pochi saranno i fortunati, molti dovranno superare dure prove nella loro esistenza. Come in ogni contesto in cui si opera da tempo anche qui si possono trovare storie interessanti, storie che possono farci riflettere sull’assoluta importanza del nostro lavoro. Due delle insegnanti che lavorano nell’asilo di Hemberti sono cresciute e hanno studiato grazie al programma di sostegno a distanza della nostra Associazione e hanno trovato lavoro proprio negli asili gestiti dalle Suore del Buon Samaritano. Anche gli asili anno dopo anno, come tutto l’operato delle suore,vanno avanti grazie alle donazioni che arrivano da ogni parte d’Italia.

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(Foto: aula asilo di Hemberti)

Lo spread della povertà

Negli anni trascorsi i mass-media hanno invaso quotidianamente le nostre vite usando paroloni che spesso non capivamo, legati a tecnicismi e a specializzazioni linguistiche che spesso non appartenevano al nostro linguaggio comune e che subivamo quasi avendone timore. Per mesi e mesi paroloni come “spread” ci hanno  spaventato perché ne percepivamo, grazie alla massa di giornalisti e di politici che ne parlavano, l’importanza in termini economici e, banalmente, tutti capivamo che se lo spread italiano stava sotto i 300 l’economia italiana poteva essere ottimista, se lo spread superava i 500 si andava incontro ad un periodo di recessione e, forse, di povertà. Addirittura molti mettevano in evidenza la stessa tenuta dell’euro, temendo che le singole nazioni tornassero alla loro moneta originale: marchi tedeschi, lire italiane, pesos spagnoli, dracme greche ecc. ecc.

Per qualche anno dello  spread si è parlato anche al bar, tutti sembravamo esser diventati degli economisti.

Perché oggi parliamo dello spread?

Noi vogliamo solo cercare di guardare il mondo con i nostri occhi e di girare lo sguardo dove crediamo debba essere girato. Soprattutto vogliamo porci, riguardo alla vita che stiamo vivendo, quelle che crediamo siano, e debbano essere, alcune delle giuste domande:

  • Perché si dà tanto valore ai mercati internazionali, quando ancora non si è risolto il problema della fame nel mondo?
  • Perché le banche si sono arricchite vendendo prodotti finanziari al limite della legalità e hanno un sostegno politico illimitato, mentre la stessa politica non favorisce internazionalmente l’accesso al micro-credito di persone povere che danno come garanzie solo la loro volontà di migliorarsi?
  • Perché se fallisce un manager lo si riempie di soldi e di stock options mentre se fallisce un povero non gli si dà più alcuna possibilità e lo si emargina?

  Ecco, se solo vorreste aiutarci a rispondere a queste tre semplici domande capireste dove è indirizzato il nostro sguardo: per noi se davvero dovesse esistere uno spread sarebbe solo quello che serve ad indicare i livelli di povertà e di ingiustizie nel mondo. Noi lavoriamo per rendere questo spread, questa differenza di ingiustizie che ci sono nel mondo, meno evidenti. Sappiamo che è un lavoro non facile, perso in partenza, ma siamo coscienti che esso sia un problema reale e culturale, siamo coscienti che ci sia in corso anche una disputa culturale su come debba essere osservato il mondo, per questo motivo invitiamo tutti a dare importanza anche a cose, come la fame nel mondo, che in questo momento non trovano spazio nei nostri mass-media, ma che, certamente sono più importanti di uno spread qualsiasi.  Noi tutti che professiamo una religione e cerchiamo di praticarla, dovremmo rivolgere la nostra attenzione quotidiana non all’indice MIB della borsa di Milano, di Londra, di Francoforte e di New York, ma al fatto che ogni giorno nel mondo muoiono 26mila bambini , 13mila dei quali muoiono per fame. Dovremmo ribellarci all’idea che la fame porti via ogni anno dal mondo 5.735.000 bambini. Il nostro dovere, la nostra quotidianità dovrebbe essere attenta a queste problematiche e dovremmo riuscire a condizionare talmente il mondo da poter fare in modo che queste morti diminuiscano sempre di più. Lavorare in tal senso ci renderebbe davvero orgogliosi di noi stessi e renderebbe il mondo occidentale, tuttora egoista e chiuso in se stesso, solidale e aperto a tutta l’Umanità.

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(Foto: Paesaggio eritreo- Archivio Associazione Mariam Fraternità- ONLUS)