Diario di un viaggio in Eritrea

Quando un occidentale si reca nei paesi più poveri del mondo sia per turismo, sia per volontariato o altro, finisce per diventare un osservatore. Osservatore della povertà altrui, della miseria altrui, della dignità con le quali vengono vissute povertà e miseria. Sono proprio la povertà e la miseria ad ergere muri impenetrabili, barriere, che diventano un limite per la tua comprensione vera della situazione dell’altro, del tuo fratello africano o asiatico che sia. Perché tu l’acqua ce l’hai, tu il cibo ce l’hai, tu la corrente elettrica la usi senza preoccuparti di consumarla, tu il telefono ce l’hai, la posta elettronica la usi più volte al giorno, per te gli sms, gli mms e la libertà di stampa sono un dato acquisito. Quando ritorni, testimoni le condizioni dell’altro, del tuo fratello. Vivi la testimonianza come un dovere, ma la barriera resta; perché tu non sei così povero e quella povertà ti è inconcepibile: non puoi pensare di vivere razionando l’acqua, di collegarti alla rete, allorquando te lo puoi permettere, solo due volte alla settimana. Non puoi pensare di bere acqua piovana. Non puoi pensare di impiegare due ore per fare 35Km pur se hai a disposizione un fuoristrada.

Sono stato ad Asmara per documentare il lavoro delle Suore del Buon Samaritano. Sono andato per capire cosa fosse l’Africa, per vedere con i miei occhi cosa fosse la povertà del Terzo Mondo, per cercare di dare il mio contributo alla costruzione di un mondo migliore, un mondo che pensi anche all’altro, a quello più lontano, con meno opportunità. Ero partito con la ferma convinzione di partecipare alla vita degli altri, di condividerla, ma spesso, troppo spesso, la povertà mi ha reso osservatore: io ero quello con la macchina fotografica, quello con la telecamera, quello con le caramelle, tutti mi sorridevano, tutti mi invitavano ad entrare nelle loro case con gesti di profonda dignità. Ed allora le cose si capovolgevano, chi mi ospitava era a proprio agio e condivideva in pieno con me tutto ciò che era suo, mi abbracciava, mi dava la mano, mi sorrideva, incurante che ai miei occhi la loro vita, la loro mancanza di opportunità di una esistenza diversa, mi procurava angoscia. Per quindici giorni il muro della povertà ha continuato ad ergere una barriera fra i nostri mondi. Sono tornato con la ferma convinzione che stare fermi, non adoperarsi per risolvere uno dei centomila problemi, significherebbe non accettare quegli infiniti gesti di ospitalità avuti, significherebbe non ricambiare con la stessa intensità quella stretta di mano avuta dovunque si andasse. Singolarmente noi occidentali non possiamo fare molto, non possiamo risolvere la povertà di Asmara, dell’Eritrea, ma non possiamo stare fermi. Ho conosciuto il lavoro delle Suore del Buon Samaritano che attraverso le adozioni a distanza dei bambini e degli anziani, attraverso gli asili, attraverso le case- famiglia, attraverso i ragazzi tolti dalla strada, aiutano il popolo eritreo a sopravvivere in attesa di un domani migliore. Nel frattempo  sono sempre più convinto di avere un dovere: la testimonianza.

Francesco

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