Oltre la povertà

Far conoscere i problemi di chi si aiuta aiuta ad aiutarli meglio. Questo, che sembra un gioco di parole, spiega bene qual è la sostanza del nostro lavoro.  Per capire chi si aiuta, chi aiutiamo da circa trent’anni, forse dovremmo fare tutti uno sforzo per cambiare, rivedere, riformulare il nostro concetto di povertà.

Chi è oggi per noi il povero? Chi ogni giorno mangia alla Caritas? Chi non arriva a fine mese? I lavavetri ai semafori? Chi dorme nei cartoni nei pressi delle stazioni ferroviarie? Chi dorme sotto i ponti? Certo, per noi quelli descritti sono tutti aspetti di una povertà fatta di  volti che indossano, quasi come segno distintivo,  la miseria, il disagio, lo sforzo e  l’impossibilità di andare avanti da soli.

I volti più stridono quanto più sono attorniati da un’opulenza tronfia di se stessa, assettata dal comprare e vendere prodotti realizzati in sovrappiù. Il povero per noi è povero perché non solo non può comprare niente, ma, soprattutto, perché non ha niente da venderti.

Per questo motivo la povertà non viene vissuta tanto come disagio alimentare, quanto come disagio sociale.

L’alimentazione, pur fatta, spesso, di avanzi, viene assicurata. Il disagio sociale rimane, per sempre, come un timbro arso ad alta temperatura sulla pelle del malcapitato.

Il povero che i nostri occhi conoscono è colui che non ce l’ha fatta a sfruttare le opportunità che la vita gli ha dato, chi non ce l’ha fatta tenere il passo di una società che corre a mille all’ora, è colui che si è, in certo qual senso, adagiato a vivere di scarti, sempre, senza sperare in altro.

Per capire il povero che noi aiutiamo dovremmo cercare di immaginare un mondo, un contesto sociale, che non conosciamo. Un mondo dove c’è corrente elettrica solo due ore al giorno. Dove ci si lava con acqua piovana raccolta in barili, e conservata in essi, per i momenti di siccità. Dove sono asfaltate solo le strade principali delle città, il resto sono tutte strade sterrate. Un mondo dove non i poveri vivono così, ma tutti. Dove è ricco colui che può permettersi la nafta per far girare un generatore di corrente a pieno regime, dove è ricco chi possiede una bicicletta per muoversi, dove è possidente chi ha un’auto.

I nostri poveri, i poveri che aiutiamo, non hanno avanzi cui poter accedere, non possono vivere di risulta. Manca loro il necessario. Quando madre Teresa di Calcutta conia la frase “i poveri più poveri” parla di questi poveri: di coloro che, oltre a vivere il disagio sociale della propria condizione, non hanno accesso a niente, perché di niente è fatto il loro contesto. Ultimi in un mondo di ultimi. A loro, spesso, non serve il necessario per vivere, ma il necessario per sopravvivere.

In questo contesto, noi cerchiamo di assicurare loro la migliore delle vite possibili, cercando di fare del nostro meglio Tutti i bambini che aiutiamo vanno a scuola, hanno un pranzo assicurato, ma sappiamo bene che non potremo mai assicurare loro di avere la corrente elettrica tutto il giorno e, aprendo un rubinetto, l’acqua per lavarsi. Questo non potremo mai farlo.

Per quanto la nostra prospettiva può cambiare: riusciamo ad immaginare di vivere avendo solo due ore al giorno la corrente elettrica?

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